Il nuovo anno comincia con un tema molto delicato per le donne del sol levante, il tema dell’abolizione della “Politica del figlio unico” in Cina di cui, già da diversi mesi (quasi un anno circa), tutti i mass media diffondono notizia. Un tema “politico” ma anche un tema che sottace aspetti sociali e strettamente culturali.
Andiamo per ordine.
Cos’ è la Politica
del figlio unico?
La Politica del figlio unico adottata nel 1979 da Deng Xiaoping, successore di Mao Tse-tung, è stata definita quale
metodo di controllo demografico, ma già a partire dal 1964 l’economista Ma Yin-chu
cominciò a diffondere l'idea secondo cui il disastro economico della Cina comunista alla
popolazione dipendesse da un esubero di popolazione. Questa non era altro che la visione distorta del modello di
sviluppo economico professato da Malthus secondo cui laddove
vi era la disponibilità di terre da coltivare si sarebbe verificata dapprima la
crescita esponenziale della popolazione e successivamente un esaurimento delle
risorse tale da dover contenere la crescita demografica. Tuttavia, l’economista e
pastore inglese diffondeva l'idea di un controllo di tipo preventivo basato sulla
castità .
Secondo Harry Wu[1],
“I leader cinesi di nuova generazione hanno cominciato a considerare il popolo
un ingombro alla crescita economica, la causa del fallimento del progresso
della Cina nella storia. Si creò proprio in quegli anni un significativo disprezzo
per le masse”; “ La tua casa sarà distrutta e
le tue mucche portate via se non pratichi l’aborto”, recitava uno slogan del tempo.
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| fonte: www.stolopolis.it |
Cos’ è la Politica
del figlio unico nella realtà ?
La “Politica del figlio unico” in Cina è la cornice del più
ambizioso programma di controllo demografico della storia e la causa dei più
crudeli abusi dei diritti fondamentali dell’uomo. Il leader
Deng Xiaoping
introdusse la “Politica del figlio unico”
con il solo obiettivo di arginare la crescita e dare spazio, da buon
riformista, a strategie economiche a favore di una ripresa economica in nome
del dio denaro.
Nel
1981, infatti, la “Commissione di Stato per la
Pianificazione Familiare” (una serie di programmazioni all’interno del più ampio progetto di
riforme definito delle “Quattro Modernizzazioni” - agricoltura,
industria, difesa, ricerca) venne istituita al fine di controllare
le nascite attraverso la dislocazione ad ogni livello territoriale di uffici
preposti: burocrati del regime cinese avevano il compito di controllare gli
aspetti più intimi della vita del loro popolo di schedare tutte le donne in età fertile le loro informazioni sanitarie, tra cui il
ciclo mestruale e i metodi di contraccezione. E che cosa accadeva alla donna che
infrangeva le regole del governo? Questi erano autorizzati a segnalare la casa
sospetta e, se la donna che si pensava avesse trasgredito la legge era
irreperibile, erano autorizzati ad arrestare il marito, i fratelli o i genitori
e a detenerli fino a quando la sospettata non si fosse consegnata. A quel punto
la colpevole veniva sottoposta ad aborto forzato e in seguito sterilizzata.
Gli orrori
della Cina. Una questione culturale.
Abolire la “Politica del figlio unico” significa riconoscere e
fermare una misura politica che in nome della potenza globale ed economica
sta calpestando i diritti umani fondamentali delle donne-madri e delle donne-figlie
che per una radicata ideologia culturale venivano taciute all’anagrafe,
abbandonate e lasciate morire. La fine della “Politica del figlio unico” in
Cina è la fine di numerosi reati quali l’aborto selettivo, praticato dopo la
diffusione di ecografie che evidenziavano il sesso del nascituro, l’
infanticidio e la limitazione della
libertà della donna di portare a termine una gravidanza; è la fine di diversi
effetti sociali quali l’invecchiamento della popolazione, la disuguaglianza dei
sessi, il suicidio delle donne, i furti di bambini e l’esistenza illegale di
una vera e propria popolazione di bambini “non dichiarati”, una popolazione di INVISIBILI.
In un mondo dove si preferiscono i figli
maschi, le femmine vengono “sacrificate” e la Cina si macchia di uno dei reati
più grandi dell’umanità , il genocidio. Questa volta il genocidio riguarda
strettamente la popolazione femminile e perciò definito un genocidio di genere.
Perché le famiglie cinesi prediligono un
maschio? La risposta ha una matrice culturale.
Le pratiche comportamentali della
donna (e quindi di riflesso anche dell’uomo) cinese sono tradizionalmente
definite attraverso la dottrina dello yin
e dello yang secondo cui
la donna deve essere educata al rispetto delle tre obbedienze (al
padre, al fratello, al marito o al figlio maschio se vedova) e al perseguimento
di tre virtù (trovare un posto nel mondo, essere gradevoli agli occhi del marito
attraverso la cura del sé e la pratica del silenzio,
curare l’economia della casa). Sempre secondo tale dottrina l’uomo veniva
indicato con lo yang, la luce, la
forza attiva e creatrice, il bene,
invece la donna veniva identificata con lo yin, l’oscurità , la forza passiva, il male; e poiché il
bene vince sul male, l’uomo veniva considerato superiore e imperava sulla donna mentre
questa era succube e dedita all’obbedienza. Anche se agli antipodi, questa dottrina li
considera in una visione globale e unificatrice, generatrice di armonia
sociale. Per di più negli
ideogrammi tradizionali[2]
cinesi la donna è identificata col termine nei
( å…§ ) ad
indicare “ciò che sta (profondamente) all’interno”, in casa, nelle stanze più
nascoste, mentre l’uomo è identificato col termine wai (外) che indica l’esterno,
“ciò che sta fuori”. Nella famiglia tradizionale cinese la
donna era considerata un membro di passaggio: non aveva un nome proprio e veniva
indicata con un numero progressivo e dopo il matrimonio veniva registrata nella famiglia
del marito solo se aveva dato alla luce almeno un figlio maschio e se aveva perseguito le virtù in modo
esemplare.
Essere la madre di un figlio maschio conferiva onore, era il modo per far
andare avanti la generazione; essere la madre di un figlio maschio conferiva
sicurezza economica per il futuro perché un figlio maschio per tradizione,
anche dopo il matrimonio, continua ad occuparsi dei genitori anziani. Al
contrario, la figlia femmina era un dispendio di risorse economiche per
indottrinarla alla vita matrimoniale e un rischio perché se non si fosse
sposata avrebbe gravato sull’economia familiare.
| fonte: www.lastampa.it |
Questa antica tradizione ha
trovato terreno fertile nella “Politica del figlio unico” fino a che un Paese
economicamente forte come la Cina non si è trovato a fare i conti con una
realtà apocalittica in cui l’assenza di una popolazione femminile e di nascite
oltre al primo figlio avrebbe contribuito all’assenza di giovani lavoratori e
ad un fenomeno di importazione degli stessi da tutte le parti del mondo ,di contaminazione. Ancora
una volta il focus è il potere globale e non la violazione dei diritti, ancora
una volta l’idea che passa è che l’abolizione della “Politica del figlio unico”
serva a contrastare un’economia in rallentamento, una popolazione che invecchia,
una forza lavoro che diminuisce. La
realtà non è questa. L’abolizione della “Politica del figlio unico” deve essere
interpretata principalmente come la tutela e la difesa del diritto alla vita e
in generale come il rispetto dei diritti umani inalienabili. L’abolizione della
“Politica del figlio unico” deve essere il “no” alla discriminazione di genere,
alla disuguaglianza tra sessi, all’ennesimo abuso di violenza perpetrato sulle
donne.
Miriam
[1] Wu, Harry (2009), Strage di innocenti.
La politica del figlio unico in Cina, Guerini e Associati, Milano.
[2]
Secondo
alcuni studiosi, anche gli ideogrammi per “donna” (nü 女 ) e per “uomo” (nan ç”· ) avrebbero un significato affine poiché indicano,
rispettivamente, una figura inginocchiata e la forza necessaria per lavorare
nelle risaie.

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